Il dono della Sapienza

7 doni dello Spirito SantoCome afferma il Catechismo maggiore, poter alzare la mente dalle cose della terra, che pur essendo così fragili riteniamo erroneamente non dover mai finire, è il primo moto a cui ci spinge il dono della Sapienza. Però se fosse solo questo saremmo dei filosofi, dei saggi e basta. Ma la ci spinge subito dopo a contemplare le cose eterne o meglio infinite, quelle che non finiscono mai. E ciò che è eterno in assoluto, ciò che non finisce è la verità che è Dio. Ma anche questa contemplazione non esaurisce il dono della Sapienza perché essa ci porta a gustare, a provare gusto in Dio (sapienza viene da sapere, avere cioè sapore, gusto) e quindi ad amare Colui in cui si trova tutta la nostra felicità. Gustate e vedete com’è buono il Signore, beato l’uomo che si rifugia in Lui, dice il salmo. Dunque quando nel mezzo del nostro lavoro ci fermiamo e pensiamo, anche per un momento a Dio, e questo pensiero ci riempie di fiducia, di amore e di gioia, dobbiamo questa possibilità non a noi stessi ma al dono dello Spirito che ci è stato dato: è la che è all’opera e a cui noi abbiamo acconsentito di operare in noi. Questo anche nel caso in cui ci rialziamo da un periodo di pesantezza o di indifferenza o di trascuratezza delle cose di Dio e siamo stati immersi negli affanni e nelle passioni terrene. Allora mi ricordai del e della sua che è eterna. Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito. Ha questo dono quella cara signora che io conosco, che dopo aver ascoltato con pazienza al telefono il problema apparentemente insolubile del familiare di turno, per un momento si rattrista e poi alzando gli occhi al cielo dice a sé stessa , sentendolo come l’unica verità :” Meno male che c’è Cristo!”.
C’è un passo della Liberata di Torquato Tasso che secondo me esprime poeticamente questo dono della Sapienza. Rinaldo, dopo un periodo di tenebre e di immersione nelle cose della terra, è ritornato pentito all’accampamento cristiano e si mette in cammino all’alba salendo il Monte degli Ulivi in una di quelle mattine così fantastiche che chi è stato a Gerusalemme non può dimenticare. Così incomincia ad alzare gli occhi al cielo….:

Era ne la stagion ch’anco non cede
libero ogni confin la notte al giorno,
ma l’oriente rosseggiar si vede
ed anco è il ciel d’alcuna stella adorno;
quando ei drizzò vèr l’Oliveto il piede,
con gli occhi alzati contemplando intorno
quinci notturne e quindi mattutine
bellezze incorrottibili e divine.

Fra se stesso pensava: “O quante belle
luci il tempio celeste in sé raguna!
Ha il suo gran carro il dí, l’aurate stelle
spiega la notte e l’argentata luna;
ma non è chi vagheggi o questa o quelle,
e miriam noi torbida luce e bruna
ch’un girar d’occhi, un balenar di riso,
scopre in breve confin di fragil viso.”

Cosí pensando, a le piú eccelse cime
ascese; e quivi, inchino e riverente,
alzò il pensier sovra ogni ciel sublime
e le luci fissò ne l’oriente:
“La prima vita e le mie colpe prime
mira con occhio di clemente,
Padre e Signor, e in me tua grazia piovi,
sí che ‘l mio vecchio Adam purghi e rinovi.”

Cosí pregava, e gli sorgeva a fronte
fatta già d’auro la vermiglia aurora
che l’elmo e l’arme e intorno a lui del monte
le verdi cime illuminando indora;
e ventillar nel petto e ne la fronte
sentia gli spirti di piacevol òra,
che sovra il suo scotea dal grembo
de la bell’alba un rugiadoso nembo.